Ramadan, il sacro mese del digiuno e della sollevazione dell’anima dai peccati, per noi mussulmani ha sempre il suo fascino. Delinquenti, santi e disperati lo aspettano con la stessa ansia, specialmente la notte Al Qadr (il destino) dove i sette cieli sono aperti a tutte le preghiere. Sincere o assurde poco importa, possono essere rivolte direttamente al Re del mondo, Dio. Preso dalla disperazione, mi ero raccolto in silenzio sul il tetto di casa mia a Nablus: “Dio, rendimi libero e non commetterò mai più nessun peccato”. Ero giovane e non mi rendevo conto del peso della promessa. Una settimana dopo sul mio passaporto c’era il visto per l’Italia; sognavo l’America, ma non si può chiedere proprio tutto a sua maestà.
Mia mamma sbaglia sempre il mio compleanno, mi fa gli auguri o prima o dopo, confonde la mia data con quella dei suoi due figli preferiti, il primo e l’ultimo dei sette. In realtà non so nemmeno io quale sia la mia vera data di nascita, ne ho avute due: una quando ho aperto gli occhi e urlato e la seconda quando ho toccato il suolo italiano. Per la gioia ho cominciato a correre per tutta Roma, leggero. Il compleanno italiano lo celebro in perfetta solitudine, niente festa né regali. Da ventitré anni a questa parte, alle undici e trenta della notte di Al Qadr, mi siedo e mi pongo le stesse domande: “Come è stato quest’anno? Cosa ho imparato di nuovo?”. Qui il tempo scorre che è un piacere, tranne qualche rara volta. La seconda risposta ha bisogno di più attenzione: ho imparato qualche nuova parola italiana, una ricetta, raffinare le mie tecniche quando dico le bugie, amare le donne, odiare le donne, fare figli, vedere come nascono i figli, montare la tenda… Ogni anno imparo molto ma poi dimentico quasi subito, probabilmente non faccio abbastanza pratica. In questi anni italiani c’è una sola cosa che ho imparato e non ho mai dimenticato: ad andare in bici. Lo so, sembra assurdo, ma in Palestina la bici è vista come un mezzo inutile, tra strade disastrose e checkpoint è impossibile fare di più di cento metri senza forare. Non è stato facile imparare, grande e grosso come ero cascavo peggio dei bambini. Federico era molto paziente e non si preoccupava troppo dei miei danni alla sua pesante Bianchi. Ho dovuto imparare per forza, la bici mi serviva per andare al paese più vicino - venti chilometri - dalla futura madre dei miei figli. Eravamo giovani e poveri. Ora di bici ne ho tre, una per ogni occasione: montagna, strada e commissioni. Capita spesso che qualcuno mi chieda orgoglioso: “Cosa hai imparato in questo paese?”. “ad Andare in bici”, dico. Ridono, di solito non mi credono. Chissà che risposta aspettano, forse “la democrazia” o “la libertà”! La prima mi è ancora difficile da capire e sto attento a non chiederla nella notte di Al Qadr. La seconda la conosco benissimo: libertà è poter andare in bici senza forare. Quando sento Lucio Battisti cantare “Motocicletta, dieci hp, tutta cromata…”, mi viene una voglia matta di comprarne una. Ma non bisogna esagerare con la libertà, si rischia di forare.