I palestinesi spendono metà della loro vita a fare documenti e ad attraversare frontiere, l’altra metà a pensare a com’è meglio morire. La vita, quella vera, fatta di sogni, emozioni e occasioni, semplicemente, non esiste. Dopo diciassette anni di onorata cittadinanza italiana, pensavo di essere immune a certi trattamenti, libero e pulito come un neonato di razza. L’addetta alla sicurezza dell’aeroporto di Tel Aviv, invece, era di un parere contrario: “Non basta avere una nuova cittadinanza per poter rinascere, prima bisogna morire…”. E per diciotto giorni è stato così. Adesso ho una carta d’identità e un passaporto palestinese nuovi di zecca e un problema in più: anche i miei figli, nati italiani e cresciuti a pane e Nutella, sono divenuti cittadini di uno stato che non esiste al di fuori del mitra, dei carri armati e della Bibbia. Mi odieranno per il resto della loro vita, suppongo. Questa è la versione corta di un viaggio alla ricerca delle radici. Il racconto integrale, invece, ha bisogno di riflessione; al momento riprendo fiato e ringrazio il Dio di avermi concesso il tempo necessario per poter morire in pace nel paese dei limoni. I ragazzi, invece, sono felici: hanno visto il mondo dal buco della serratura e pensano già al viaggio dell’anno prossimo. Ci vadano da soli a Nablus dalla nonna, io, nonostante i quattro passaporti collezionati (giordano, italiano, palestinese e lascia passare israeliano) e una vita spesa all’insegna della difficile legalità, non sono mai riuscito ad attraversare una sola frontiera senza confusione.