Le montagne sono come le donne o si amano o si odiano, non c’è via di mezzo. Per chi le odia è meglio starne alla larga perché potrebbero fare male, invece per essere amate chiedono solo rispetto. Beppe mi spiegava così la filosofia del perfetto montanaro. Non è stato facile per un quasi beduino come me conquistare la loro fiducia al prezzo di crampi e vesciche; sono passati più di vent’anni da quando Beppe mi accompagnava su e giù per le cime della Valle d’Aosta ed è sempre come la prima volta: nonostante l’impegno è impossibile evitare il mal di testa da vertigine, mi sento come un cammello in alta quota. “Amico, questo è vero amore. Se tu soffri vuol dire che ami”. Beppe è un ottimo consolatore quando ci si mette. Un’altra cosa che si deve imparare sono i dialetti, dentro c’è tutta la saggezza popolare. Sarà per questo che Beppe, l’amico valdostano, ogni tanto prova ad insegnarmi il Patuà, la parlata della Bassa Valle. Siccome è un misto di francese e di tedesco non è per niente facile per un arabo come me. Nonostante ciò sono riuscito ad imparare qualche frase, tipo: “Marino, aitta l’aerio?”, “La vacca l’è giù nella pianna!” che in realtà non ha nessun significato, è la classica frase nonsense come anche la sua risposta. La traduzione letterale lascia quasi di stucco: “Marino, hai visto l’aereo?” domanda un pastore di vacche leggermente più in alto rispetto all’altro che risponde senza esitazione: “Sì, la vacca è giù nella valle”. Siccome io mi fido di Beppe, che mi ha insegnato molte cose da quando lo inseguo per le cime di queste montagne, un giorno, casualmente, intravedo un pastore seduto giù in basso a guardare in silenzio le sue mucche pascolare in pace e in ordine sparso. Preso dall’entusiasmo del principiante provo a gridargli la mia frase oramai imparata a memoria e, dopo che l’eco della mia voce si dissolve lentamente nell’aria fresca, aspettiamo con ansia la risposta che non si fa attendere. Stupore e vergogna ci invadono, la replica ci ha praticamente gelati. Il pastore, senza perdere la sua calma montanara, ci ha mandati gentilmente a quel paese. Questa è stata la vergogna, lo stupore, invece, è perché ci ha risposto in perfetto arabo classico. Non rimane che chiedergli scusa e una spiegazione. Si chiama Nizar, ogni anno lascia in Marocco la sua Fatima e i sei figli per fare il pastore valdostano nei mesi estivi. È irregolare e pagato abbastanza bene, di notte dorme in qualche baita abbandonata, campa di pane, acqua, latte, toma e fontina e non perde mai una preghiera. “Oramai non ci sono più pastori locali”, ci spiega quasi orgoglioso, “siamo quasi tutti extracomunitari”. Sarebbe fantastico se un giorno i valligiani, riuniti in una qualche sagra di paese, ricordassero la fatica che c’è dietro la loro polenta concia. Nizar è come le montagne, non vuole essere ringraziato ma solo rispettato. Così ci ha fatto capire quel giorno d’estate.