Molti sono convinti che a Torino non ci sia il mare, invece c’è, è a due passi dal Duomo. Chi attraversa il centro storico può sentire già il suo lontano profumo e i suoni. Molti sono convinti che siano le onde, no, è il rumore della vita di sottofondo prodotto da miglia di persone color sabbia che parlano un’altra lingua, straniera. Arrivati da chissà dove, in tasca hanno un biglietto di sola andata e un piccolo foglietto appallottolato nel vecchio portafoglio semi vuoto di finta pelle con scritto “Porta Palazzo” in arabo o in africano; vicino il nome di qualche amico o conoscente partito anni prima e non ancora ritornato. Molti pensano che abbia fatto fortuna e cercano di seguire le sue orme perché ogni tanto manda qualche regalo e un po’ di soldi a chi è rimasto a casa, al paese. Così, da anni, tutti partono per inseguire il sogno del presunto Zio e si ritrovano qui sulla fredda spiaggia di Porta Palazzo a impazzire per trovare un lavoro oppure si perdono nel fascino discreto di Torino e scelgono di non fare niente al momento; pochi decidono di riprendere subito la via del ritorno, questione di nostalgia e di sincera delusione.
Ogni mattina, qui a Porta Palazzo, l’altra anima nera di Torino si sveglia con il cuore e la testa altrove, la sera tira tardi tra ricordi e pianti, la vita scorre frenetica tra sogni, bugie e fatica bestiale. C’è che si alza all’alba, vestito ancora da immigrato, per spingere un pesante carrello e guadagnare la giornata, pochi spiccioli, sudati ma onesti; altri non si stancano mai e vorrebbero andare oltre, più in là, costruire ponti tra la spiaggia/mercato più grande d’Europa e il tranquillo fiume, sono poeti, scrittori e musicisti. Anche Torino, come Roma, ha la sua “Orchestra di Porta Palazzo” multicolore, ma non è ancora famosa come quella “di Piazza Vittorio”; altri, invece, vestiti da occidentali hanno scelto la strada più facile per diventare ricchi immaginari, spacciano illusioni.
La vita dell’emigrato è più difficile là dove non c’è il mare, l’integrazione è lenta e selettiva e come minimo ci vogliono tre generazioni per sentirsi pienamente cittadini. La prima insegue la strada delle nuvole e sovente sbaglia porto pensando che sia l’unico a cui attraccare la loro barca fatta di sogni, forse per questo amano Torino e non hanno mai smesso di pensare che un giorno sarebbero ritornati a casa, convinti di essere solo di passaggio. La seconda generazione vive in una terra di mezzo, tra conflitti e rifiuti, non sono né immigrati né veri cittadini, sono fonti di guai anche per loro stessi. La terza, invece, è quella più fortunata, galleggia meglio nonostante non sappia più nuotare. Pasquale, Gennaro e Giuseppe ce l’hanno fatta, felici di non sentirsi più ultimi e, prima di andare via, hanno consegnato la chiave dei bassifondi ad Alì, Omar e Abdulallah, adesso sono loro i nuovi non-cittadini di Porta Palazzo, non amano essere chiamati extracomunitari, è dispregiativo, pensano ancora di essere marinai che hanno sbagliato solo rotta. Chi glielo dice che a Torino non c’è mai stato il mare?