Frustrazione, vergogna e rabbia. Ecco cosa provo per ciò che sta accadendo a Gaza. La mente confusa corre subito ad Abdul che un giorno mi disse: “Sono nato nella Terra Santa, ma avrei voluto una casa meno disumana. Il mio nemico è stato scelto dal Signore come eletto, ma non mi lascia pregare in pace. Il mondo mi ama e vuole liberarmi, ma ogni giorno aggiunge un nuovo anello alla catena della mia prigione. Sono nato in un giorno di coprifuoco. Mio figlio è stato partorito durante la guerra. Desideravo sapere che profumo ha la libertà e mi sono trovato per dieci anni in galera. Aspiravo a fare l’insegnate di storia e faccio il falegname. Niente mobili, porte o persiane, costruisco solo croci di legno di ulivo. E’ pregiato, sai, e ha un sapore così lontano, così famigliare… vorresti vederne una?”
In Palestina non ci sono le stagioni o gli anni, ma solo un’unica notte scura. Il tempo si è fermato all’inizio della storia. Strana questa terra, la sua sabbia è sacra e il resto è solo sangue. Qui Dio è nato ed è stato tradito come un bandito. Il fratello nega il fratello. Tutti i profeti sono passati di qua e nessuno ha mai dormito sonni tranquilli. Chi vi abita pensa di essere l’unico custode della verità affidatagli direttamente dal Libro. Non ho mai visto una violenza così disumana in nome della religione. La gente altrove porta la croce sulle spalle invece noi la portiamo tatuata sul cuore. Questa è la guerra. Mi sarebbe piaciuto nascere altrove solo per non sentirne il peso.
Siamo ad un passo dal baratro e l’unica consolazione è che non è la prima volta. Abbiamo resistito fin troppo: quattro guerre, due deportazioni, cinquant’anni di occupazione militare, confisca di case e di terreni, campi profughi permanenti dimenticati dall’ONU e dagli uomini giusti, due processi di pace gestiti male, ingerenza araba e occidentale, politici nostrani incapaci, civili armati fino ai denti per contrastare l’esercito israeliano che aveva esteso le sue frontiere fino ai nostri cortili, finanziamenti personali camuffati da aiuti internazionali, ritiro unilaterale da una striscia senza speranza, elezioni libere e democratiche mai convalidate dalla Comunità Internazionale ed infine quell’arma quanto mai pacifica e nello stesso tempo lenta e micidiale per la gente comune che è l’embargo. Occorrono varie generazioni prima che funzioni e nel frattempo il rischio che tutto cambi è molto alto: il regime nemico, per strani intrecci internazionali, può addirittura divenire un amico.
Hamas non è un gruppo di terroristi, ma è un partito popolare islamico voluto e nato da Israele per contrastare Arafat agli inizi degli anni ottanta quando l’OLP faceva il bello e il cattivo tempo. Il movimento era impegnato nei territori in tutti i settori: assistenza agli anziani, ai malati e ai parenti dei detenuti nelle carceri israeliane, creazione di campi di lavoro, di scuole e di università. Insegnava perfino alla povera gente nei campi profughi l’igiene per evitare malattie e ridurre la mortalità infantile. La maggior parte dei suoi dirigenti sono laureati e gran lavoratori e, a differenza di quelli di Al Fatah, nessuno vive di rendita. In mancanza di aiuti internazionali hanno imparato in fretta ad autofinanziarsi e chiunque ha la possibilità di accedere a micro-crediti. Con tutto ciò molti di noi palestinesi non si riconoscono nella loro idea di resistenza così anacronistica, ma hanno vinto le prime libere elezioni e nessuno ama perdere da vincente. E finché la cosiddetta ala moderata della società palestinese non si assumerà tutte le sue responsabilità e smetterà di giocare solamente sul fatto di essere vista di buon occhio dall’Occidente per governare, Hamas continuerà a vincere ad oltranza ogni appuntamento elettorale. Tutto ciò Abu Mazen l’ha capito molto bene come anche Israele ed i suoi alleati. Tutti hanno voluto giocare con il fattore tempo: “Quanto tempo potranno resistere in una vita fatta di embargo e di prigione? Hamas consentirà il trascorrere di tutto questo tempo morto?”
Molti ora si domandano cosa stia succedendo a Gaza. Come si può rispondere ad una domanda così violenta quando nessuno ha mai fatto nulla per evitare questa guerra incivile? Certo, anche noi palestinesi abbiamo le nostre colpe. Non abbiamo mai capito in tempo che non contiamo niente, che noi non c’entriamo nulla con la tragedia degli Ebrei: quando sono arrivati qui erano già orfani. Avremo dovuto pagare il conto altrui? Tanto ne siamo stati costretti! Paradossalmente al di fuori della Palestina entrambi siamo poco desiderati, in Occidente come in Oriente. Forse bastava questo a farci ragionare e sedere attorno ad un tavolo e decidere il danno minore per il nostro destino da disperati. Ma abbiamo preferito dare ragione alla nostra follia collettiva. Karim, a proposito di pazzia, un giorno mi disse: “Per chiudere l’interruttore di questo delirio e vivere in pace potremmo distruggere il Muro del Pianto, la moschea di Al’Aqsa e la Basilica dalla Natività!” Così, però, non avremo più la luce.