“Non date mai, a certa gente, la soddisfazione di giustificare il loro odio”. Non ho ancora capito cosa volesse dire il nostro insegnate di storia delle elementari. Ogni volta che a Nablus c’era una manifestazione contro l’occupazione israeliana, Darwish, il nostro maestro, ci pregava di non uscire dalla classe. “Calma ragazzi, siete ancora piccoli, avete tempo per imparare e morire intelligenti. Se proprio volete sfogare la vostra rabbia innocente, bene, prendete carta e penna e scrivete quello che vi pare. A fine lezione potrete andare al primo checkpoint e lanciare i vostri pensieri sui soldati. Lo so, forse non risolve niente, ma aiuta”. Anche questo non l’ho mai capito, ma mi sono adeguato. Con rabbia, è chiaro. Ne è passato di tempo, e di quei trentanove scolari indisciplinati ne sono sopravvissuti una manciata, insegnate compreso. Oggi, dopo una settimana di esitazioni, mi sono deciso ad andare alla fiera del Libro di Torino, dedicata alla letteratura ebraica sotto la bandiera di Israele. Sono partito con il cuore a farfalla, balbettante dall’emozione. Non è stato facile, ma era giusto così: i libri sono di tutti, non bisogna mai boicottarli nè calpestarli.
Un proverbio africano dice: “Un uomo che non sa dire dove la pioggia lo ha colpito non sa neppure dove il suo corpo si è asciugato”. Da noi, in Palestina, sono sessant’anni che piovono lacrime e sangue. Gli unici che hanno detto qualcosa di sensato sotto questa pioggia sporca sono stati proprio loro, gli scrittori, che meritano il giusto omaggio. Al diavolo, dunque, vado. Di buon’ora, come i vecchi viaggiatori. Per conquistare un po’ di coraggio, scrivo su un foglietto l’ennesimo pensiero.
L’appuntamento è alle sette e mezza del mattino, un collegamento speciale con RaiNews24, gente in gamba, preparata. Ritrovo lo scrittore Vittorio Dan Segre, l’uomo che avrei voluto incontrare in battaglia, un anziano combattente che rispetta ancora il codice d’onore: “Il nemico va vinto, mai umiliato”. Mentre aspetto di andare in onda prendo il primo libro che mi capita. In copertina c’è un paesaggio familiare. Trovo un pezzo della mia storia scritto da qualcun altro, ma con lo stesso amore, e la lettura diventa una sorta di vertiginoso gioco di specchi. Tra rumori, parole e profumi familiari, in quelle pagine mi rivedo bambino, sento l’odore materno ovunque. Ogni pagina è come un sogno in bianco e nero, le parole si muovono silenziose ed eleganti, alcune sincere e altre di circostanza, come nella vita reale, alcune urlate da spettinare i capelli e altre che prendono il cuore. Chiudo il libro con lentezza per non sentire quel rumore così simile alla porta di una cella. Dopo il collegamento l’amico Dan Segre mi saluta dicendo: “Sei stato coraggioso”. Non so, ma prendo il mio foglio e lo lancio in aria, strappato in mille pezzi. Forse è arrivato il momento di parlare a quattr’occhi con i vecchi soldati. Il mio insegnate di storia ne sarebbe contento.