Un giorno di molti anni fa a Nablus, la mia martoriata città, scrissi con la vernice rossa una poesia intitolata “Pensiero” sul muro di fronte alla fortezza inglese, trasformata in caserma militare nonché carcere israeliano per noi disgraziati sentimentali palestinesi. I soldati della stella di David non gradirono la mia vena poetica e come premio mi raparono a zero e mi portarono in una cella tre per tre già occupata da altri sei ragazzi più o meno della mia stessa giovane età. “Lo facciamo per il tuo bene”, mi dissero ridendo i soldati, “così rifletterai meglio prima di sporcare altri muri”. Confuso, guardavo dall’unica finestrina il muro di fronte che i soldati avevano ridipinto in malo modo e io non sapevo se piangere per la mia cella, per la poesia sparita o per tutte e due. Ho fatto tesoro del loro consiglio. Non ho mai smesso di scrivere e ho imparato a riflettere di più e imbrattare di meno prima dare un giudizio o sfogare il mio pensiero, sempre nella speranza di non ritornare in cella, odio il buio. Quest’anno il Salone del Libro di Torino è dedicato allo Stato d’Israele; molti non hanno gradito e invitano al boicottaggio sostenendo che non è il momento. Ogni attimo è buono per sfogliare un libro, sentire le visioni altrui del mondo, chiacchierare in modo pacifico lontani dagli occhi indiscreti dei cecchini e del forte odore di polvere da sparo. Quei giorni il mondo, Torino con il suo Salone, profuma di libri; cosa c’è di più vero? Quest’anno è toccato agli scrittori Israeliani essere l’ospite d’onore, chissà, un giorno forse toccherà anche a noi palestinesi, augurandoci che nessuno si lamenti dicendo che non è il momento. Comprendo che viviamo di emozioni e di riflessi e molti si sentono offesi, ma la scrittura e l’arte non possono pagare il conto altrui.
Si sa, questa non è mai stata una guerra come le altre, corpo a corpo, ma è un conflitto per il cuore e per la mente, talmente coinvolgente che ci ha trasformati tutti in soldati, vittime e carnefici allo stesso tempo, è un gioco di specchi. E come si può dare torto a Jean-Paul Sartre secondo cui "l’occasion décide seule: selon l’occasion, n’importe qui, n’importe quand, deviendra victime ou bourreau"? In questa striscia di terra nessuno può essere considerato innocente, civile a tempo pieno. Molti durante le pause di non-guerra e non-pace cercano di dare un senso alla loro sofferenza, invadere al di là del muro e del mare, bestemmiare. L’artista è il testimone per eccellenza del suo tempo. L’unico capace di ragionare positivo nei momenti difficili e intravedere una luce in fondo al tunnel. Non esiste niente di più triste se non l’autore che realizza la sua opera e si trova di fronte alla scelta o il muro o la cella. Lo Stato d’Israele non è mai stato tenero con noi palestinesi e la situazione di Gaza è solo il riassunto di quarant’anni di occupazione, ma grazie a certi scrittori e intellettuali israeliani, spesso, nelle loro opere ho ritrovato la mia sofferenza e una solidarietà morale che va oltre i muri ed i fili spinati. Di certo non sarò io a boicottarli o a rinchiudere in una cella tre per tre il loro pensiero. Scrivi, scrivi nemico mio, tu che puoi girare liberamente il mondo, descrivi il tuo, il mio amore per la stessa terra, parla della nostra gente, di come è bella e triste, racconta di come si vive in un perenne stato di assedio e di guerra, dell’amore delle madri per i propri figli e della loro paura di vederli crescere troppo in fretta, diciottenni e già soldati o kamikaze per difendere o per riprendere il pesante sogno ereditato dai loro bisnonni. Disegna la nostra cella piccola e buia e quando l’elegante pubblico, tra il credulo e il dubbioso, ti chiede spiegazioni, ti prego, sorridi e abbi pazienza, spesso gli altri fanno finta di non comprendere le pene d’amore. Buona Fiera.