La storia narra di un sufi che capitò per caso nella regione cinese di Xinjiang. Era l’inizio dell’ottocento e la gente di allora era più chiusa, ma sta di fatto che il sufi, per il suo modo di fare e di essere, fu subito ben accolto dalla popolazione locale: appena metteva il naso fuori casa un sciame di persone lo seguiva sorridendo, qualcuno gli lanciava fiori e gli chiedeva lumi. Educato e credente come era rispose a tutti con belle parole, mai sopra le righe. Un giorno il vecchio sufi, spaventato dal suo ascendente sulla gente, decise di metterli alla prova, voleva verificare se amavano veramente la sua persona e la sua causa o solo le sue parole. Cominciò a rispondere in malo modo e, in qualche giorno, attorno a lui ci fu il deserto. Ecco, spero di non fare la fine del vecchio amico sufi. Spesso mi chiedo: “si può rifiutare la solidarietà?”. Non saprei perché l’aiuto reciproco è una cosa seria, una sorta di religione, un amore senza confine, è la carità per eccellenza. C’è gente, nonostante i problemi quotidiani, che è disposta a spendere tempo e denaro per aiutare il prossimo, qualcuno addirittura si gioca un’intera vita a volte senza neanche sapere come è andata. Per noi palestinesi la solidarietà della gente comune è ossigeno, ci dà forza per resistere e voglia di una vita normale, umana. Impossibile trovare le parole giuste per ringraziare le donne e gli uomini grazie ai quali non abbiamo perso la speranza di un futuro migliore. Poi, ci sono coloro che si lasciano prendere la mano, esagerano con le azioni, scendono nelle piazze a bruciare la bandiera del nemico, pronti a calpestare i suoi libri in nome dell’amore per la nostra causa. Ecco, a loro vorrei dire qualcosa ma non riesco a trovare le parole giuste, senza ferirli, naturalmente. Potrei dire che siamo stanchi di morire arrabbiati, voi che avete imparato sulla vostra pelle la pace, piuttosto di portare lo scontro al punto del non ritorno, insegnateci la pace, un giorno dovremmo pur convivere con lo stato di Israele. Dopo queste parole mi auguro di non fare la fine del vecchio sufi di Xinjiang che da quel giorno venne abbandonato e nessuno seppe più niente di lui oppure, come diceva Mahmoud Darwish, “Quando le mie parole erano grano io ero terra / Quando le mie parole erano collera ero tempesta / Quando le mie parole erano roccia ero fiume / Quando le mie parole sono divenute miele / Le mosche hanno ricoperto le mie labbra.