La guerra non risparmia nessuno, proprio nessuno. Non solo gli esseri umani
soffrono come cani, ma anche i cani soffrono come gli umani; la
piccola differenza è che non trovano spazio nelle cronache.
E a Nablus non poteva essere diversamente. Chissà quando
è cominciata questa tragedia canina, ma il suo perché
è ovvio: la forza d’occupazione militare israeliana,
oltre alla guerra fisica, produce in parallelo anche quella psicologica,
la cosiddetta guerra invisibile che spesso è più efficace
e micidiale. Quando i soldati hanno capito che i palestinesi, come
in tutto il mondo islamico, non sono amici dei cani, anzi, non possono
aver con essi nessun rapporto amichevole (così voleva il
Profeta; il cane per noi è un animale impuro e deve stare
ad una distanza minima di sette metri. Non sto qui a discutere se
sia giusto o sbagliato, ogni religione ha pregi e difetti, d’altronde
sono fatte per noi umani!), hanno deciso di provocarci. Ogni tanto
una quantità imprecisata di cani randagi recuperati in Israele
viene trasferita a Nablus e negli altri centri palestinesi. Di tutte
le razze e le taglie da un giorno all’altro passano da una
vita serena e tranquilla ad un’altra fatta di fughe e miserie,
profughi come noi. Qualcuno di loro conserva ancora un po’
l’aspetto borghese. Poveri cani! Sono costretti a vivere in
clandestinità permanente perché di giorno sono molestati
e umiliati da noi e di notte, vicino alla discarica dei mercati
generali, diventano un bersaglio perfetto per i soldati che si allenano
al tiro a segno passando con le loro jeep ad alta velocità.
Non lo fanno solo per divertimento ma anche per trasmettere un messaggio
chiaro per tutti noi: farete la stessa fine dei cani… Ogni
tanto li vedevo gironzolare in piccoli gruppetti nell’ombra
dei fitti boschi sovrastanti la periferia della città mentre
aspettavano il buio della notte per uscire allo scoperto, e mi domandavo:
chissà se anche loro hanno formato dei gruppi di resistenza
canina per difendere meglio la loro sopravvivenza? Certo non è
facile visto che devono combattere su due fronti contemporaneamente,
da una parte i palestinesi con i loro sguardi assassini e dall’altra
gli israeliani e le loro armi di sterminio, senza aver nessuna chance
di un trattato di pace o di una roadmap…
Poi un giorno li ho visti in azione: Omar, un ragazzo che veniva
dal campo profughi di Balata, una sera passava per caso vicino alla
discarica. Improvvisamente venne circondato da molte paia di occhi
fiammanti ed un unico ringhio rabbioso gli bloccò la strada.
Il commando punitivo aggredì il povero Omar che riuscì
a salvarsi urlando fino a spaccarsi i polmoni e se la cavò
con piccolo morso sul polpaccio. E da lì ho capito che neanche
i cani sono stati in grado di organizzarsi, hanno semplicemente
reagito di istinto. Di notte si sentono in lontananza i rumori degli
spari a volte in sequenza “ratatatatà“a volte
a tratti “ta… ta… ratatatatà” e dopo
l’attimo di silenzio che segue l’eco delle pallottole
si po’ udire benissimo qualche guaito. Il mattino seguente
la gente maledice i soldati e i cani oramai cadaveri, ma per fortuna
che c’è Abu Omar! Un uomo più vecchio della
sua età, cammina male e ha perso l’uso della parola.
Non mi ricordo come fosse da giovane, ma dicono che sia stato un
ottimo insegnate di storia. Poi un giorno, passando per caso per
le vie della città vecchia, si è trovato all’improvviso
tra una pattuglia israeliana e un ordigno artigianale piazzato dai
palestinesi. Lo scoppio è stato micidiale non tanto per la
jeep militare che è stata danneggiata solo in modo lieve,
quanto per Abu Omar che è volato in aria per qualche metro
prima di toccare terra mezzo vivo mezzo morto, mezzo sano mezzo
matto, pronunciando le sue ultime parole: “bastardi”.
Da quel giorno Abu Omar, perso il lavoro come professore e la fidanza
che non voleva saperne di sposare un uomo che non sa dire neanche
una parola d’amore, ogni mattina, presto presto, prende il
suo carrello e si dirige di corsa, cercando di nascondere l’andatura
zoppicante, verso i mercati generali per recuperare qualche scarto
di prima scelta. Già, perché lui non si considera
né profugo né barbone, ma solo una vittima di questa
guerra senza fine. Alla vista dei cani oramai morti le labbra di
Abu Omar si muovono come per dire qualche parola senza suono, forse
una bestemmia rabbiosa o una preghiera imprigionata, difficile saperlo.
Dal suo volto non traspaiono emozioni, allarga le braccia e comincia
a caricare le carcasse sul suo carrellino e le scarica di corsa
di fronte alla caserma militare con tanto di cartello con la scritta
“bastardi”. Non abbiamo mai capito a chi si riferisce:
a noi, a loro o ai cani.